Una relazione “sana” dovrebbe essere fondata sulla capacità di coniugare il bisogno dell’altro con la salvaguardia della propria autonomia e individualità.
Ci sono relazioni che, al contrario, finiscono per annullare uno dei membri della coppia rispetto all’altro. Questo accade perché il partner viene vissuto come sostegno irrinunciabile alla propria autostima o al proprio senso d’identità.
Si tratta di una forma patologica di amore in cui uno degli elementi della coppia è “donatore d’amore” a senso unico. Il legame con l’altro diventa l’unico scopo dell’esistenza e il necessario riempimento dei propri vuoti affettivi. L’amore allora assume l’aspetto di una gabbia le cui sbarre sono modellate dalla sofferenza.
Chi soffre di dipendenza affettiva non ama l’altro in quanto tale, ma non può fare a meno del modo in cui l’altro lo fa sentire. L’altro rappresenta la soluzione di tutti i problemi e la sua assenza, anche temporanea, è insopportabile perché si prova la sensazione di “non essere”.
Ciò è dovuto ad una totale identificazione con il partner di cui si ha bisogno per sentire di esistere. L’amore non è desiderio dell’altro, ma il totale e imprescindibile bisogno di lui/lei. Come uscirne? Non esiste una formula magica che possa risolvere la questione. La parte più complicata, forse, è riconoscere di avere il problema.
Non è possibile pensare di salvare qualcuno che non vuole aiuto. Iniziare un percorso con un professionista permetterà di indagare quali bisogni profondi possano portare ad avere questi comportamenti.
Indipendentemente dal tipo di approccio terapeutico scelto, la dipendenza primaria viene affrontata focalizzando la psicoterapia sulla crescita dell’autostima, mentre nella dipendenza secondaria gli obiettivi sono: l’adattamento all’evento scatenante e il trattamento del disturbo di base associato.
Tutti i trattamenti, in ogni caso, devono portare l’individuo al graduale recupero o all’instaurarsi di un’autonomia mai raggiunta.
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21 Febbraio 2018