Mi risveglio dopo l’anestesia e sono immersa in un incubo.
La mia mente lotta per riemergere, ma contemporaneamente ha paura di ciò che è ora e vorrebbe fuggire, rimanere nello stato quasi irreale di semi incoscienza.
Piano piano però, si delinea la realtà: in me esiste solo la dimensione del dolore fisico. Il male mi prova il corpo, mi annulla i pensieri.
Potrò superare tanto dolore? Sono io questa? Io che mi agitavo, che correvo, che lottavo per i miei ideali, io che lavoravo con fervore ed energia, io che mettevo continuamente in discussione me stessa?
Nella disperazione di questa dimensione devo trovare la forza di lottare ancora, per ritrovare quella parte di me, che la malattia ha annullato, deve la mia mente vagare, per poter di nuovo respirare e vivere.
Ecco che il pensiero corre , calamitato, agli attimi più felici della vita, agli affetti più cari, più veri, ai luoghi che sono chiusi nel mio cuore.
Chiudo gli occhi e visioni amate affiorano in modo autonomo, istintivo, senza lo sforzo del ricordo.
Ho la fortuna di avere un poco viaggiato. Ho visto luoghi ricchi di meraviglie naturali e di storia: mari azzurri come il cielo d’estate, austere montagne innevate, isole da favola, templi antichi, resti di un passato affascinante, ma ora non ricordo null’altro che il mio Paese, le sue strade in salita, i suoi vicoli chiusi, le sue case vecchie e un po’ malandate che lasciano intravedere molteplici intonaci di colori differenti, che si confondono, dando ai muri qualcosa di misterioso e passato.
E vicino a queste vedo le case rimesse a nuovo, che con il loro ordine moderno a volte contrastano con l’antica struttura del Paese, ma che ugualmente amo, al di là di un senso estetico non rispettato.
Cammino piano e risalgo la via Roma, la più centrale, la più importante e ricordo me bambina, con i verdi zoccoletti nuovi, che battevano il selciato di ciottoli tondi e lisci.
Come mi divertiva quel rumore allegro e com’ero orgogliosa di quei tacchetto di pochi centimetri !
Ora la via è asfaltata, ma ugualmente vorrei passeggiarvi ora, osservare le case attaccate le une alle altre, ricostruire con la fantasia cosa sta dietro la facciata, negli orti, nei giardini nascosti.
In tante di queste abitazioni non sono mai entrata: preferisco immaginarle dietro la riservatezza delle tendine tirate, dietro il volto della persona amica , che si affaccia alla finestra a salutare.
So che adesso c’è vita in Paese, si scherza, si chiacchiera, si ride. Penso solo alle gioie, agli eventi sereni della mia gente, forse perchè sono qui in questo letto troppo bianco e troppo freddo.
Immagino di passeggiare e mi trovo nella via Aureliano Beccaria e poi nella via Circonvallo, che si snodano sinuose intorno a quello che un tempo fu il castello. Da esse si diramano stradine caratteristiche.
Gli stretti vicoli ti conducono da un luogo all’altro.
Questa parte del Paese mi affascina, perchè porta con sè qualcosa di antico e misterioso.
In un attimo ti ritrovi fuori da un angolo buio e ammiri le colline intorno, le frazioni più lontane, le terre confinanti.
E quanti fiori vedo negli orti: fiori semplici, ma per me meravigliosi. e poi e poi il cielo azzurro turchino…..
Ogni casa abitata ha i suoi vasi di terracotta sui davanzali, i suoi gerani tenuti con cura, uguali a quelli della vicina, per uno scambio di talee, pretesto di una chiacchierata.
E poi….E poi mi trovo, sempre passeggiando intorno al vecchio castellazzo, a guardare lontano, verso est: vedo colline, fasce di verde spontaneo, paesi sparsi. E poi e poi il cielo azzurro turchino……E lo ricordo pieno di lampi, che delineano drappeggi luminosi e sento il vento, che solleva la polvere, che scompiglia gli alberi, in quella notte di fine estate, insieme alla mia cara amica e ci sentiamo ritornate indietro nel tempo.
Non siamo spaventate : ci teniamo per mano immobili, davanti a quello spettacolo suggestivo ed ugualmente pauroso.
E poi, e poi la pioggia ci sorprende con grosse gocce e ci rifugiamo in una casa vicina, scusandoci dell’intrusione a tarda ora. Ricordo la piccola stanza così ordinata nella sua semplicità, rammento il caffè bevuto insieme attorno al tavolo.
E poi, e poi l’ombrello preso in prestito.
Non incontriamo nessuno fino alla Piazza, ma non abbiamo paura, anche se i lampioni sono spenti per colpa del temporale e ci sentiamo ritornate in un tempo addietro.
Non siamo spaventate : conosciamo bene ogni vicolo, ogni porta, conosciamo la nostra gente. Siamo nel nostro Paese.
Scendiamo lungo la via Roma e i nostri passi rimbombano sull’asfalto.
Ci sembra di essere complici di un segreto, in quel buio remoto. Non accettiamo neppure il passaggio in auto che ci offre un amico: non vogliamo rompere quella atmosfera magica.
Caro Paese, care strade, piccole contrade, voglio essere con voi presto: sono sicura mi aiuterete a guarire.
” Svegliati, svegliati Donatella! Questa ragazza sta ancora delirando, sono i postumi della lunga anestesia. E’ comprensibile, l’intervento è durato a lungo.
Infermiera, mentre noi continuiamo la visita ai malati, cerchi di farla tornare vigile. “
Io sento le parole del medico e nel mio dolore mi vien da sorridere.
Esimio professore, non sto delirando.
La sua tecnica operatoria altamente qualificata mi ha salvata, ma ora lei non sa entrare nel mio animo.
Lei non sa che non solo il mio corpo deve tornare a vivere , ma tutto il mio essere! Le sue iniezioni, le sue fleboclisi non bastano.
Ma io trovo la forza di reagire.
La trovo nei miei ricordi, nel desiderio di tornare al mio Paese, ai miei affetti, alle mie strade, tra la mia gente.
Donatella Bellarosa
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Categoria: Storie di Sanità
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28 Gennaio 2019